FRA’ GIOVANNI DA FIESOLE, DETTO IL BEATO ANGELICO : ANNUNCIAZIONE – cella del corridoio

L’ANNUNCIAZONE della cella nel corridoio del convento di San Marco è forse meno conosciuta di quella in cima allo scalone di accesso, ma certamente ha un’intensità di sentire che è singolare anche nella pittura dell’Angelico.

                                                  Annunciazione della cella 3 di San Marco
                                   L’angelo

Il colloquio di sguardi fra l’Arcangelo Gabriele e la Vergine Maria è di una forza silente che arriva diretta: non occorrono parole scritte per cogliere tutto ciò che si dicono nel silenzio, mentre la “nudità” del sì di Maria è accentuata dal suo profilo esile, ridotto ad un assenso che si risolve tutto nella luce, con quel suo manto rosa dalle sfumature tutte come attraversate dalla grazia di Dio, che sembra farne un invaso di luce, nella trasparenza dell’alabastro. I capelli raccolti della Vergine Maria ne sottolineano la essenzialità del volto dall’ espressione casta, il profilo scarno, la nudità rispetto ad ogni compiacenza mondana, di ogni individualismo capace di sottrarsi alla volontà di Dio. Maria è tutta protesa in Lui, in quel Dio che la vuole madre, mentre l’Arcangelo le parla nel silenzio, con uno sguardo che infonde fiducia. A proposito di questo messo celeste: l’Angelico ne ha sottolineato con un colore più denso e pieno una corporeità forse anche maggiore a quella della Vergine annunciata. E mentre il punto di fuga si risolve tutto nella nudità di quel muro spoglio, appena ritmato dagli archi del soffitto e dalle colonne michelozziane, che riproducono quelle visibili in tutto il complesso del convento – poiché fu Michelozzo a presiedere al restauro, così come fu l’Angelico a presiedere alla decorazione di esso – ritornano in questo affresco gli accordi del bianco ( Fede), del verde ( Speranza) e del rosso ( Carità), ossia le virtù teologali enunciate sul piano cromatico, come poi accade anche in altri dipinti presenti nelle celle del convento.


                              La VERGINE

Nella composizione disadorna, solo lo sgabello è presente, a dirci che nei momenti decisivi della nostra Storia spesso non ci sono testimoni. E quel San Pietro martire, quel Pietro da Verona che morì verso la metà del XIII secolo durante una sua campagna di predicazione per un colpo di mannaia in testa, è il solo che contempla il mistero, un mistero che s’invera di eternità e di concretezza insieme, quale presenza e visione al contempo. Ne fa fede, di questa concretezza, l’ombra di Lei, dell’Annunciata, sul muro alle sue spalle. Mistero di una pittura casta, fatta di luce ed insieme densa di verità contemplate, che possono soltanto tradursi in quella raccomandazione di San Domenico, così cara all’Angelico pittore: “contemplare e trasmettere agli altri ciò che si è contemplato”.

In questo affresco, davvero, l’Angelico supera ogni maestro precedente e contemporaneo : da Giotto recupera la castità del segno essenziale, da Masaccio la concretezza di corpi e volumi; mentre dalla preghiera e dalla sua maestria di artista trae una luce che non è “naturale”, ma “divina” – una luce teologica.

Nella Vergine Annunciata troviamo l’assenso e la dimenticanza di sé. E quel piccolo libro squaternato fra le sue mani resta a  dirci le sue conoscenze di spazio prospettico, come se non bastassero le colonne michelozziate cui abbiamo già accennato, a ricordarci la contemporaneità dell’Angelico col primo Rinascimento a Firenze.

Marisa Marmaioli

Preghiera del momento